Sessant’anni fa lasciava questa terra Evita Perón. Questa giovane donna merita senza dubbio un ruolo da protagonista nel dramma del secolo scorso, un posto nella storia della politica e forse della religione. La sua passione per i problemi del popolo argentino era talmente forte che la si può eguagliare alla "passione" di Cristo. Patì atroci sofferenze per via del cancro che la uccise all’età, così simbolica, di soli trentatré anni. Ma prima patì le stesse sofferenze dei poveri, dei derelitti, degli ultimi fra gli abitanti della sua terra, finanche di esseri deformi, quelli rifiutati perfino dagli istituti (pare che se ne portò in casa una ventina, prima del matrimonio con Perón, per lavarli e curarli).
Evita passava l’intera giornata, che si spingeva fino a notte fonda, a ricevere personalmente le richieste, le suppliche dei connazionali bisognosi, come una prodiga e benevola regina medioevale. Non era la filantropia classica della first lady, non si trattava di retorica o pubbliche relazioni. Niente di estemporaneo ed improvvisato, ma una rete capillare di soccorso sparsa per tutto il territorio nazionale. E poi quella donna, “fata dei derelitti”, signora dei descamisados, veramente si commuoveva di fronte allo spettacolo della miseria.
Era vestita elegantissima, con addosso profumi francesi e gioielli, mentre dava udienza; non solo perché teneva tanto alla sua immagine e alla sua femminilità, anche perché capiva quanto i poveri abbiano bisogno di vedere l’abbondanza, la bellezza che dona, che aiuta, esaudisce, salva. Sarebbe stato un insulto ipocrita, mancanza di rispetto per il popolo il cercare di mimetizzarsi, addobbarsi da povera o da grigia burocrate. L’ultimo sciancato d’Argentina aveva diritto a godere della stessa Evita presentata ai potenti della terra, e spesso riceveva in aggiunta un sentito abbraccio.
Bella e ricca come una statua della Madonna, come una santa, molti così la venerano. È certa una cosa: Angelo Roncalli, non ancora papa Giovanni XXIII, le scrisse in una lettera, che la sua totale dedizione per il prossimo, portata alle estreme conseguenze, non poteva che condurre alla croce di Cristo. Fu forse profeta il futuro pontefice: Evita, che serbava più di un dubbio sulla legittimità della Chiesa terrena e sulla stessa giustizia di Dio, fece esperienze di dolore fisico e morale non comuni, adatte più a una santa che alla semplice moglie di un uomo di Stato.
Non agiva mossa dell’ideologia, in realtà nemmeno dalle rispettabilissime linee teoriche del peronismo: il suo era un impulso pre-politico o post-politico, meglio metapolitico, meglio ancora radicalmente sociale, morale e pragmatico insieme. Pensava ad un’economia del dono, del dare, della concordia e del sacrificio. Cose che faranno sorridere i pigri apologeti del tardo capitalismo finanziario, non c’è dubbio. Non si limitavano a sorridere sessant’anni fa i nemici, diffamavano Evita dandole della puttana, trattandola come una semplice concubina del generale con smanie di protagonismo. Era lungo l’elenco dei nemici di Evita, di Perón e del suo esperimento di democrazia sociale e sovranità nazionale. Non solo lungo, trasversale. Se i meno abbienti e i sindacati di categoria si consideravano peronisti, i nemici erano studenti ed intellettuali imbevuti di idee francesi, comunisti fedelissimi alle direttive staliniane, famiglie di latifondisti e monopolisti, borghesia puritana, giornali a grande tiratura, generali filo-nazisti e, dulcis in fundo, mire geopolitiche degli Stati Uniti usciti un po’ troppo prepotenti dal Secondo conflitto mondiale.
Con tale parata di avversari ci voleva un miracolo per rimanere al governo, per suggerire una via. Il miracolo fu forse la presenza della stessa Evita, una Giovanna d’Arco del XX secolo. Non è un caso che la sua morte segni l’inizio delle decadenza di Perón, della progressiva caduta dell’Argentina nell’incubo delle dittature, fino alla tragedia dei desaparecidos.
Sempre gli stessi, con qualche verniciatura esterna, sembrano dunque i nemici del Populismo (che non è una dottrina politica, ma uno stile, una ricerca d’equilibrio fra leader e popolo); sempre le stesse le loro armi: il puritanesimo, il razzismo antropologico, il formalismo giuridico, i potenti mezzi delle oligarchie economiche e gli intrighi internazionali. Di quel tipo di passione, di dedizione al bene comune, non ne abbiamo visto molta nei populismi ultimi e penultimi. Eppure avremmo proprio bisogno se non di martiri ed eroi, almeno di appassionati.